Secondo la FAO una delle possibilità concrete per sfamare il mondo nel terzo millennio sarà l’incremento delle proteine di origine marina, i pesci.
Ma l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa della nutrizione del pianeta rilancia anche l’allarme per la costante diminuzione delle risorse ittiche: clima, inquinamento e pesca indiscriminata stanno impoverendo quelli che fino a pochi anni fa sembravano le inesauribili risorse marine (v. il rapporto periodico sulla Pesca e l’Acquacoltura mondiali –The State of World Fisheries and Aquaculture).
I più autorevoli centri di ricerca sull‘alimentazione raccomandano di inserire il pesce nella dieta almeno due volte a settimana. L’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione ha pubblicato da tempo le “Linee guida per una sana alimentazione italiana“.
Il pesce e i molluschi offrono alla dieta anche vitamine e altri elementi importanti: basti pensare agli integratori Omega 3 e al decantato Fish Factor, che al di là di qualche promozione commerciale esagerata, contiene davvero anche elementi utili per il cuore e le articolazioni.
Mode a parte, le nostre nonne lo sapevano già quando ci davano il cattivissimo olio di fegato di merluzzo (se è amaro e cattivo, deve fare bene). L’olio di pesce è il terzo integratore alimentare negli USA per importanza, dietro a vitamine e sali minerali. L’olio di fegato di merluzzo contiene inoltre gliceridi, specialmente insaturi (dell’acido palmitico, stearico, ecc.), come anche tracce di cloro, bromo, fosforo e zolfo.
Con queste premesse, sarebbe quindi più che logico che i prodotti ittici fossero quanto mai tutelati, valorizzati e la pesca sostenuta. E invece no, la pesca e l’acquacoltura nel mondo e ancor più in Italia, con i suoi 7.458 km di coste marine, oltre ai laghi e ai fiumi (ci sono 58 fiumi piu lunghi di 100 km e oltre 70 fiumi con una portata di piu di 10 mcubi di portata alla foce) sono in crisi forse irreversibile. I consumi aumentano, le scorte ittiche calano e non sono rimpiazzate dai prodotti di acquacoltura.
La pesca è la sorella povera della Cenerentola Agricoltura italiana. Nel nostro Paese la situazione è drammatica
Tre quarti del pesce e dei prodotti ittici consumati nell’UE sono di origine selvatica e un quarto di allevamento. Anche se esistono oltre 20 specie di prodotti ittici ampiamente disponibili in Europa, il 42% del consumo si concentra solo su sei: tonno, merluzzo, salmone, merluzzo giallo, aringhe e cozze. In Europa importiamo più pesce di quanto ne produciamo.
Il consumo di pesce e di prodotti ittici in Italia è di circa 25,9 kg pro capite all’anno. La media europea è di 23,1 kg, con variazioni comprese tra i 5,3 kg a testa in Ungheria, 46 kg in Spagna e 56,7 kg in Portogallo.
La crisi dura da decenni, e l’attività di pesca è ridotta ai minimi termini. In Italia negli ultimi 20 anni i prodotti della pesca sono calati di oltre il 40%, mentre il tasso di autoapprovigionamento (detto Fish Dependence) è, secondo l’autorevole New Economic Foundation, arrivato nel 2015 fino al 18 aprile. E‘ la data convenzionale che indica la percentuale di autoproduzione rispetto al fabbisogno. A quella data il prodotto nazionale era finito, con una copertura di meno del 30%.
Ovviamente tali dati dovrebbero essere disaggregati, ma il trend globale è questo.
Ridurre la pesca o aumentare le risorse ?
A fronte di questa drammatica realtà, le polititiche del settore della pesca della UE (l’Italia non ha una politica agricola figurarsi se ne ha una per la pesca) sono state impostate ad una sostanziale riduzione dello sforzo di pesca (cioè la quantità di pescato) attraverso la rottamazione delle barche e con misure restrittive come il fermo pesca biologico. Anche qui i dati (non cercateli al Ministero, non sono aggiornati) sono di una disarmante semplicità: negli ultimi 20 anni la flotta peschereccia italiana è calata di oltre il 40%, sia come numero di barche che di tonnellaggio.
Alcune Regioni corrono ai ripari
Per fare fronte alla crisi del settore e della disponibilità delle risorse, da qualche anno alcune Regioni adriatiche si sono associate con iniziative diverse, in particolare per la creazione di barriere artificiali sommerse, ed anche di DCI (dispositivi di concentrazione ittica) che creano micro-habitat per facilitare la riproduzione.
Negli ultimi tempi si sono moltiplicate le esperienze di ripopolamento attivo, intervenendo su specie particolarmente a rischio. Utilizzando le risorse del progetto ECOSEA, finanziato dalla Unione Europea (www.ecosea.eu), alcune Regioni adriatiche hanno lavorato per invertire la tendenza e provare, con la collaborazione di pescatori e acquacoltori, a contrastare il declino.
Dal Friuli alla Puglia sono state realizzate così delle azioni pilota, cioè delle sperimentazioni a carattere divulgativo, che hanno interessato specie diverse, ma tutte a rischio: seppie, astici, ostriche, capesante, polpi. Con risultati anche notevoli. Sono state anche sperimentate nuove tecniche a basso impatto ambientale, come le “calze di cotone“ per allevare le cozze.
Sperando di avere sollecitato la curiosità dei lettori, rimandiamo al prossimo articolo per raccontare di come i tecnici del progetto Ecosea sono riusciti a fare riprodurre seppie, ostriche e le altre specie oggetto dell’intervento.