Tra le tante questioni del nostro passato prossimo vi sono anche i frutti antichi, probabilmente questione per pochi, in altri termini tutto il germoplasma frutticolo delle agricolture tradizionali, gran parte decimato dall’esodo agricolo (campagne e paesi spopolati) che ha interessato particolarmente il meridione d’Italia per oltre un ventennio (1955-1978).
I frutti antichi sono argomento di una tematica ampia in cui dovrebbe trovare finalmente, giusto ed ampio spazio anche la ricerca storica. Si ha a che fare con la fine di un’epoca, con una storia lunga e che, stranamente, una sola volta è stata argomento di ricerca a carattere nazionale, grazie alla straordinaria Storia del paesaggio agrario di Emilio Sereni (1961), l’unico lavoro che tenta una visione d’insieme di quello che ancora aggi costituisce l’identità nazionale: il Paesaggio agrario Italiano.
I frutti antichi sono custodi di autentica cultura materiale e pertanto hanno assunto i tratti di materia per archeologi, sociologi, studiosi di alimentazione, genetica, storia del territorio, paesaggio. È materia anche per farne romanzi, cinema. E non solo, ma anche storie di vita, biografie di tante generazioni di contadini le cui coordinate della loro esistenza sono stati gli alberi da frutto.
Frammenti di vita importanti anche per chi scrive. Adolescente nella prima metà degli anni settanta, vivevo il Gargano così com’era stato per altri secoli prima, in cui ad esempio, lo scorrere del tempo si misurava con il tempo dei frutti: il tempo della vendemmia, il tempo delle olive, il tempo delle ciliegie, il tempo delle arance, il tempo delle pere ciccantonio, il tempo delle pere spadone, il tempo delle pere invernali. I tempi dei frutti, che in fondo regolavano la vita anche ad uno studente che doveva cimentarsi con versioni di latino e greco; tempi, segnati da precise coordinate che risultavano fisse, immutabili.
Quando cercavo di spiegare a mia madre il moto di rotazione della terra, ella mi rispondeva semplicemente:
“Io quell’albero di ciliegio sempre lì fermo l’ho visto”
Anche per un liceale, fissa, immutabile, eterna, risultava quell’immagine del vecchietto che coltivava la sua vigna, che si arrampicava al suo ciliegio. Altrettanto eterni, erano le immagini di grandi alberi di ciliegio, peri, aranci e limoni. Immutabili anche i paesaggi di uomini e donne che animavano le campagne. Immagini di dura fatica, sofferenza avvolti da una nebbia di colori e profumi che li rendeva pieni di vita, di felicemente “eterno”.
Gli anni universitari mi catapultano in una realtà completamente diversa, nuova, interessante, che mi cancella del tutto quelle coordinate sulle quali si costruisce la mia esistenza. Nelle facoltà d’Agraria si studiano cose “nuovissime” che affascinano: varietà di grano, mele, pomodoro che producono quantità di frutti, impensabili per i contadini del mio Gargano. Fitofarmaci che sconfiggono ogni insetto, ogni patologia. Mucche che riuscivano a produrre fino a 40 litri di latte al giorno. Una vera e propria rivoluzione!
E l’agricoltura del mio Gargano, con viti, ciliegi, peri tutti insieme su uno stesso fondo?
Mi domandavo: “E le mie magre mucche podoliche che fine faranno?”
“È normale che spariranno!” mi rispondevano grandi luminari come il prof. Di Cocco o Patuelli – Servono terreni profondi, pianeggianti sui quali meccanizzare ogni operazione colturale. Dobbiamo sfamare gli italiani. Si deve produrre di più e allora i terreni come quelli del Gargano non sono idonei. Purtroppo devono essere abbandonati. Tanto ci sarà l’industria che darà lavoro a tutti!
Ricordo le sensazioni di sconfitta, d’amarezza, di fronte a queste affermazioni. Il senso di sconfitta si trasforma in rabbia. Decido di fare una tesi proprio sul mio Gargano. M’incoraggia la disponibilità di una straordinaria professoressa d’Economia Politica, Elda Pedrini.
La tesi era che le agricolture come quelle del Gargano non potevano “sparire” anche per il ruolo sociale (ambientale ed economico) che potevano continuare a svolgere in quelle realtà.
Questo ruolo poteva essere meglio riconosciuto con le Comunità Montane che proprio in quegli anni stavano nascendo, come specifici enti di governo delle tante realtà interne (zone montane) che non avevano mai conosciuto attenzioni governative. Il giorno che discussi la tesi, un’altra amarezza, poiché la prima cosa che un membro della commissione mi chiese fu semplicemente:
“Che c’entra questa tesi in una Facoltà di Agraria?”
Che c’entra – era questo il senso – questa tua argomentazione in una Facoltà d’Agraria impegnata su tutti i fronti a “sfornare” scienza e tecnologia per far produrre di più, quando si sta dimostrando che basta un terzo della superficie agricola attuale per produrre il triplo di quello che prima producevamo con circa 15 milioni di ettari?
Dopo la laurea e qualche altra esperienza, nella prima metà degli anni ottanta, ritorno nel Gargano. Sembrava che non ci fossi mai nato in quel mio paesello. Cinque anni appena erano bastati a cancellare ogni mio legame con quella terra che mi aveva visto nascere e, per un bel po’, crescere. Non mi riconoscevo più in quei luoghi! La vigna di mio padre, dei miei nonni, con suoi “mille frutti” non c’era più; non c’erano più le tante vigne, o i tanti frutti con cui fissavo lo scorrere del tempo. Per i primi anni superai queste sensazioni, ma poi il mio lavoro di agronomo mi ha fatto ritornare a girovagare tra le campagne del Gargano rendendomi conto che era veramente cambiato il mio paesaggio.
Ecco la causa del mio non riconoscermi. Mi mancavano i riferimenti e, ciò che mi amareggiava maggiormente, era la difficoltà di ricostruirlo anche con la fantasia. A volte però bastava un profumo, un sapore di una fragola, di una Ciliegia napoletana, a far riemergere dalla mia memoria una scena, un angolo di paesaggio, di com’era la campagna del Gargano. Ma erano immagini sempre sbiadite, incompiute, che poi si scomponevano con immediatezza (ero troppo piccolo quando le avevo vissute).
In quegli anni (seconda metà degli anni ottanta) infatti, si potevano toccare con mano i segni e le conseguenze di quell’esodo (fisiologico si diceva in ambito accademico) che si era tradotto non solo nell’abbandono di tradizionali attività agricole, ma in un vero e proprio abbandono del territorio, responsabile di un totale degrado del paesaggio che di quei luoghi costituiva l’identità. Il tutto era avvenuto così in fretta che era difficile percepirne tutte le dinamiche, ma evidentemente non si aveva la consapevolezza che l’oggetto del cambiamento era il paesaggio il quale può cancellarsi velocemente in modo definitivo. Ruderi diroccati, tratturi, sentieri cancellati, vigne invase dal bosco, sorgenti inquinate, centri storici fatiscenti, muretti a secco crollati, chiese di campagna abbandonate, casette rurali, alberi di ciliegio, arancio, peri seppelliti da rovi ed erbacce. ecc. ecc…quasi un day-after da “bomba atomica”. Una sensazione affatto esagerata che provavano i nostalgici occhi degli emigrati dall’Australia o dalla Germania. Vere e proprie crisi d’identità.Questi sono oggi gli scenari del Gargano e di gran parte della campagna italiana, delle zone interne italiane e in particolare del nostro meridione.
Oggi, stiamo a cercare la Mela Annurca, il Lardo di Colonnata, la Mandorla di Noto, stiamo in fondo a cercare il genuino, il tipico e, per averlo, siamo disposti anche a pagare cifre notevoli.
Stiamo a cercare, i frutti, gli alimenti “antichi”, in altre parole quelle risorse che erano espressione delle tante agricolture, ognuna con uno specifico patrimonio di tipicità, con cui si era caratterizzata per secoli la nostra Italia.
Diverse esperienze di ricerca e studio in cui mi sono coinvolto mi hanno permesso di conoscere, e anche avviare percorsi di recupero dei frutti antichi del Gargano; un lavoro non facile, spesso “scovati” tra memorie, ricordi e, materialmente, tra macchie di rovi, ginestre, pini d’Aleppo. Tutto quello che siamo riusciti a sapere su questi frutti lo dobbiamo ai tanti contadini che ci hanno aiutato a interpretarli, decifrarli, a farli “parlare”. Quanti ce n’erano? Non lo sapremo mai. Al massimo siamo riusciti a sapere quanti ne sono sopravissuti!
E il Gargano, comunque, si è rivelato come il maggior serbatoio pugliese di frutti antichi, tra i quali vitigni, diversi autoctoni e, paradossalmente, non c’è ancora un vino di questa terra.
Sono stati studiati, moltiplicati, conservati in centri di ricerca, altri si conservano direttamente in campagna con la preziosa e insostituibile custodia dei pochi contadini rimasti, ancora per poco.
Il resto è “abbandono diffuso” animato solo da mucche podoliche che “vagano” tra pascoli incolti, ruderi di masserie, muretti a secco e roveti, che continuano a darci qualche quintale di vero caciocavallo.
Del paesaggio degli alberi restano gli uliveti, i castagneti, sempre meno per attacchi di carie e di recente falcidiati dalla vespa (Dryocosmus kupriphuilus); sono alberi piantati dai nostri bisnonni, e che continuano a produrre olio e a motivare ancora la pratica agricola (Vico, Rodi, Cagnano, Sannicandro, Vieste, Monte S.Angelo, Mattinata). Chi pianta più un nuovo castagneto, una nuova vigna? Al massimo qualche albero da frutto comprato nei vivai che poi muore dopo qualche anno appena.
Il futuro? Dedicare loro almeno un libro (speriamo quanto prima pubblicato) che si potrà sfogliare, leggere, in cui trovare spunti per romanzi e sceneggiature e per qualche giovane del Gargano che vuole tornare a piantare alberi; un documento che può farci ricordare che
i vecchi alberi di pero, melo, ciliegio, gelso sono i testimoni di un equilibrio ecologico del territorio che ha funzionato per secoli.
Un equilibrio che ci ha consegnato integri borghi, paesi, ponti, strade, scolpiti di pietra, passati tra secoli di alluvioni e terremoti. Con il loro abbandono non c’è nessun altro equilibrio, questo è il problema! Esiste solo un territorio non governato e che, invece, come si fa con una casa, di tanto in tanto va restaurato. E le piogge sono sempre più motivo di paure, angosce: frane, allagamenti, crolli in un disordine dilagante. Nessun contadino ricorda che si poteva morire sotto una pioggia.
Saremo capaci di un nuovo equilibrio? La “casa Italia” di Renzi?